Il Qwan Ki Do e le bolle prossemiche

Nelle arti marziali tutto comincia dal contatto fisico: toccare, afferrare, prendere, colpire, lottare, sudare con e contro l'"altro". Imparare a toccare il corpo dell’altro e permettere che il nostro venga toccato da altri, indipendentemente dalla condizione fisica del momento, sembra banale e ovvio, eppure è proprio qui che si incontrano le prime resistenze, le prime difficoltà. Almeno io personalmente ho dovuto affrontarle.

La società moderna si basa sempre più su una comunicazione verbale e audiovisiva, in sostanza, una cultura del non-contatto.

Esiste una scienza, chiamata prossemica che si occupa proprio di questo. Del modo, cioè, in cui l'uomo utilizza lo spazio intorno a sé, di come reagisca a esso e, di come, usandolo può comunicare certi messaggi attraverso un linguaggio non-verbale.

Un esempio? Pensiamo a una situazione: metropolitana semi-deserta. In condizioni classiche le persone si distribuiscono automaticamente a grande distanza le une dalle altre, creando quasi, tra di loro, dei triangoli equilateri.

Immaginiamo la stessa situazione con qualcuno che ci invade.

Una persona che, nonostante ci sia molto spazio, si posiziona accanto a noi, praticamente appiccicato.

Cosa faremmo? La risposta è fisiologica: la frequenza cardiaca aumenta, nel sangue viene immessa adrenalina, i muscoli si contraggono e si preparano a un attacco. È una risposta a una situazione in cui ci sentiamo in pericolo.

Classicamente, a questo punto, iniziamo a trasmettere una serie di segnali preliminari per indicare il nostro disagio (dondolare una gamba o muoverci sulla sedia).

Subito dopo, la chiusura diventa più evidente, il mento si flette e le spalle si chiudono.

Se tutti questi segnali, consciamente o inconsciamente, non vengono percepiti dal nostro "invasore" allora ci allontaniamo dal luogo.

Ognuno di noi possiede proprie "bolle prossemiche"


Ognuno di noi possiede proprie "bolle prossemiche", spazi all'interno dei quali ci si sente sicuri, spazi che aumentano o diminuiscono in base alla familiarità e al grado affettivo che abbiamo con l'interlocutore o la persona che ci sta accanto.

Fanno parte di noi e del nostro background socio-culturale (le popolazioni nord-africane hanno distanze prossemiche ridotte rispetto a quelle europee). Pensiamo alle distanze che sono necessarie a un ragazzo autistico per sentirsi sicuro dalle "invasioni" delle persone che lo circondano, realtà differenti, esigenze differenti.

Diventa quindi immediato capire come l'esperienza del confronto sperimentata nelle discipline marziali, sia un'occasione formativa per conoscere sé stessi più approfonditamente ed evidenziare le proprie modalità di comportamento in situazioni di stress.

Accettare un altro nella propria "bolla prossemica" diventa un modo per analizzare sé stessi.

L'analisi del sé, se gestita con competenza, diventa un ottimo esercizio dove "allenarsi" a utilizzare al meglio le proprie potenzialità. Apprendere nuovi schemi di comportamento, da utilizzare nel momento del confronto, è come spiccare un salto nel vuoto. È necessario fidarsi di chi ci sta accanto.

Pratico Qwan Ki Do da 18 anni eppure l’accettare l’altro nella mia “bolla prossemica” a volte risulta ancora difficoltoso. La differenza, però, con i primi anni di pratica, è la consapevolezza di me stessa alle prese con “l’altro” e l’aver sviluppato una mia modalità di avvicinamento e di riduzione delle distanze che applico non solo in palestra, ma, e questo è ciò che più conta, nella vita quotidiana.

In 18 anni ho condiviso la mia “bolla” con innumerevoli tipologie diverse di bolle prossemiche e oggi mi accorgo che il tempo necessario per ridurre le distanze e per gestire il contatto fisico con l’altro, è sempre più breve e i contorni sono sempre meno definiti.

Il Qwan Ki Do mi ha insegnato a superare nel modo meno “retorico” possibile e meno socialmente inflazionato, il concetto di “diverso” e di “paura dell’altro” assimilandolo in modo totalmente naturale, istintivo fino ad annullarlo.

Giorno dopo giorno, lezione dopo lezione, sono riuscita a ridiscutere con me stessa la famosa metafora del porcospino di Schopenhauer: in materassina perfino i porcospini riducono la lunghezza dei loro aculei trovando il modo di scaldarsi a contatto, senza ferirsi.

E, nei momenti di incertezza, quando mi pare di fare un passo indietro e la barriera del contatto fisico si ripresenta, mi disegno nella mente la mia bolla prossemica, sempre più piccola, come una bolla di sapone che presto scoppia e svanisce.


Carla Fiorentino